CON IVO omaggio al Maestro Ivo Scaringi . Dal 1 al 31Dicembre 2018 Galleria C.D’Arte Michelangiolo di TRANI



COLLETTIVA D’ARTE CONTEMPORANEA



CON IVO omaggio al Maestro Ivo Scaringi



Espongono gli artisti:
Magdalena ASTERI  Luigi BASILE  Mario COLONNA Antonio LAURELLI Nicola LISANTI Benito GALLO MARESCA Massimo NARDI Ivo SCARINGI
  

Inaugurazione 1 dicembre 2018 ore 18:30

Intervento critico su Ivo Scaringi di Carmelo Cipriani

 Dal 1 al 31Dicembre  2018
   
Galleria C.D’Arte Michelangiolo 

Via Giovanni Bovio, 186 - 76125 TRANI (BT)

TELEFONO PER INFORMAZIONI: email: 0883 582231 - cell: 340 1541925 / 346 6062784




  
catalogo editore Arti Grafiche Favia S. R. L.
 impostazione grafica di Massimo Nardi 
testi in catalogo di Carmelo Cipriani, Nicola Scaringi, Antonio Ladogana



Ivo Scaringi



IL REALISMO ESISTENZIALE DI IVO SCARINGI TRA INQUIETUDINI FIGURATIVE E PROPENSIONI COSTRUTTIVE
Carmelo Cipriani

 Succede di rado che gli artisti, in sede espositiva, abdichino al ruolo di protagonisti per ricordarne un altro, il più delle volte un maestro. Quando ciò accade l’occasione si rivela propizia ben oltre la pura commemorazione, divenendo pretesto di studio, di approfondimento e – ci si augura – di valorizzazione. L’occasione è data spesso dalla scomparsa, da un anniversario o da una ricorrenza, ma non mancano i casi in cui a dettarne la genesi è la pura necessità del ricordo, quel bisogno impellente di celebrare un antesignano, ma anche più semplicemente un amico. Ed è quest’ultimo il caso che ha spinto sette pittori nativi o attivi nell’alta Terra di Bari (Magdalena Asteri, Luigi Basile, Mario Colonna, Benito Gallo Maresca, Antonio Laurelli, Nicola Lisanti, Massimo Nardi) a celebrare Ivo Scaringi, pittore pugliese tra i più sensibili della sua epoca. Hanno deciso di farlo nella Galleria Michelangelo a Trani, città natale dell’artista, a cui i familiari hanno concesso l’esposizione permanente di un consistente nucleo di opere, determinando la nascita in loco di una pinacoteca a lui intitolata.
Sensibile interprete della realtà pugliese oltre che aggiornato protagonista di quanto in regione e fuori si andava producendo, Ivo Scaringi ha saputo leggere e rappresentare il proprio tempo, non rifugiandosi in una posizione di riottoso rigetto, spesso elitaria ed inefficace in ambito civile, ma agendo saldamente all’interno di quella stessa realtà che si voleva denunciare così da inciderne le vicende e cambiarne, magari, le sorti. Egli ha operato da solo e in gruppo, promuovendo la sua pittura ma anche quella dei suoi colleghi e sodali, che con lui hanno condiviso pensieri ed esperienze.
La vicenda umana e artistica di Scaringi si colloca nella vasta e complessa cornice del secondo dopoguerra in cui alla macro-opposizione tra astratto e figurativo (politica oltre che estetica) si affiancano le divergenze interne tra informale e astrazione geometrica e tra realismo sociale e trasfigurazione. Anche Scaringi fa la sua scelta di campo, condivisa con maestri e compagni. Sceglie di raccontare l’uomo, la sua solitudine, le fatiche del lavoro e la quotidianità dei gesti minimi e delle piccole cose. Perizia grafica e tonalità cromatiche in predominanza fredde sono gli strumenti che adotta per raccontare la sua visione e sentirsi così partecipe del dramma collettivo. Supera il dato reale nella pura parvenza fenomenica per scoprire nella terra e negli uomini i segni di quella sofferenza che ciascuno porta con sé; racconta il dramma esistenziale, storie di emarginazione e soprusi che nella comunanza di vissuto si rivelano tragedie collettive. È questo il tratto distintivo della sua pittura ma anche la caratteristica formale di un determinato periodo – i decenni immediatamente successivi al conflitto mondiale – durante il quale, “sull’onda lunga delle avanguardie” [1], l’arte torna al romanticismo[2], a quella “necessità di espressione” che da sempre costituisce l’aspetto più genuino dell’arte, origine e fine di ogni creatività.
Nel dopoguerra la partecipazione alla condizione umana accomuna non pochi artisti. Alla fine della seconda guerra mondiale, infatti, prima e durante il sorgere delle ricerche informali, si assiste al riemergere nell’arte europea di una tendenza interessata ad indagare l’essere umano e il suo destino nel mondo contemporaneo. Un nuovo tipo di figurazione rievocativa di esperienze prebelliche, interpretate però alla luce delle tragedie recentemente vissute. Figure sospese, dilaniate o ferite, divengono protagoniste di nuovi modi espressivi, che fanno proprie le poetiche della distorsione, della lacerazione, del frammento. Ed è quest'ultima, non alternativa ma compendio delle prime due, quella che più connota la fase matura di Scaringi, che usa i frammenti come residui dell’esistenza, testimonianze memoriali da ricomporre sulla tela per rintracciare il filo dell’unanime vissuto.
Condivide con il fratello Franco la prima formazione nella bottega del padre, apprezzato scultore. La completa nell’Istituto d’Arte di Bari, sorto nel 1953 per rispondere alle molteplici esigenze formative che provenivano dal territorio, seguendo gli insegnamenti di Vito Stifano, Roberto De Robertis e soprattutto di Francesco Spizzico, l’artista che forse meglio di ogni altro ha saputo catalizzare le istanze di rinnovamento della sua generazione trasferendole a quelle successive. Sono soprattutto le opere degli esordi a testimoniare un rapporto di filiazione diretta con il noto pittore barese, dal quale sembra desumere una costante di tutta la sua produzione: la capacità di costruire con il colore, quell’aspra plasticità che fa assumere a figure ed oggetti una sensibile propensione alla tattilità. Sono gli anni a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta, un momento in cui si tenta di costruire una tradizione estetica regionale, soprattutto attraverso il paesaggio, riconosciuto come il tema cardine per la costruzione e il riconoscimento della pugliesità. Una tendenza recepita anche da altri e ad altre latitudini, come attesta Guido Ballo che, in occasione della I Mostra Regionale Pugliese di Pittura, allestita al Castello Svevo di Bari nel 1962, a cui prese parte anche il nostro pittore, dichiara: “Sono convinto che il linguaggio diventi più internazionale, come valore, quando più conservi gli accenti di una particolare inconfondibile civiltà, e quindi di un clima di un costume”.
La mostra regionale è l’erede del Maggio di Bari, manifestazione di risonanza nazionale che nel 1956 “cambia segno nella gestione”, incamminandosi verso significative “aperture a tendenze nuove, a generazioni ed ambienti culturali diversi del Paese”[3]. Ed è in questo momento che Ivo Scaringi fa la sua comparsa sulla scena pugliese, aggiudicandosi, nel 1958, il Premio “Nicola Lippolis”, destinato ai giovani artisti, con Paesaggio pugliese, opera che Guttuso avrebbe premiato ma che la commissione di cui faceva parte preferisce solo segnalare. Alla stessa manifestazione si ripresenta anche nei due anni successivi con un nuovo Paesaggio pugliese e con un Ritratto di schietta impronta figurativa, non senza ragionate semplificazioni formali, le stesse che connotano gli autoritratti degli anni immediatamente precedenti. È quello il periodo in cui matura il suo figurativismo di matrice esistenziale, percorso da “un caldo impegno umano e poetico che egli trasferisce non solo sul piano della drammatica cronaca quotidiana e della polemica sociale ma anche su quello di una più ampia comprensione dei problemi dell’uomo”[4]. Ne emerge chiaro un interesse per la realtà meridionale, un impegno sociale, una precisa “moralità” come l’ha definita Pietro Marino, facendo eco a Filippo Alto che considera la pittura di Scaringi “atto di inquieta, sincera frattura nei riguardi di una società irta di compromessi ed ingiustizie: la forza morale, di cui è dotata, la eleva a dimensioni di autentica partecipazione al riscatto dell’uomo”[5].   
Il lavoro dell’artista si affaccia alla ribalta in un periodo ricco di fermenti per la cultura in Puglia. Dopo la guerra, per reazione alle precedenti chiusure dettate dal fascismo, si verifica da parte dei pittori più giovani un decisivo interesse verso i linguaggi à la page, cubismo ed espressionismo in primis. Sono gli anni della nascita del Maggio di Bari, del Premio Taranto e di altre manifestazioni similari, di scelta tra emigrazione e permanenza. Scaringi sceglie di restare e di impegnarsi in prima persona nel rinnovamento dell’arte in Puglia, insegnando Decorazione pittorica all’Istituto d’Arte di Bari tra il 1960 e il 1969, ma soprattutto costruendo un suo stile e una sua mitografia. Recependo i molteplici stimoli che pervenivano da più parti, si prefigge lo scopo di approdare ad una pittura che possa concretamente definirsi moderna e realistica. Il suo è un realismo lontano dalla pedissequa rappresentazione, dalla riproduzione banale di trulli, ulivi e raccoglitrici di grano, ma è un modo concreto di indagare la realtà contadina, di penetrarla con intento sociologico, in un momento di transizione alla disumanizzante realtà industriale, il tutto con sincera partecipazione al comune dolore. A testimoniare il suo impegno civile, condotto fin dai primi tempi, sono opere come Corpo riverso del 1963 (nella Galleria Civica di Bitonto), L’occupazione delle terre del 1963, Tarantolata del 1963, Bracciante del 1964, che già nel titolo rivelano una specifica attenzione alla realtà pugliese, assunta però non in chiave localistica e provincializzante ma a simbolo di una sofferenza generalizzata. Ogni suo foglio e ogni sua tela assumono una forza emblematica, rappresentando una situazione generale, di cui egli esaspera i termini per condurli ad una definizione figurativa perentoria. È palese nella sua pittura “l’acquisita consapevolezza della condizione umana” capace di andare oltre la polemica sociale per farsi “disperata testimonianza della tragedia del vivere e del morire”[6].
Lo stile di Scaringi rientra in un campo d’indagine a vasto raggio, non connesso a movimenti precisi, ma che accomuna autori di differente formazione, desiderosi di recuperare la funzione sociale dell’opera d’arte. Ferma restando l’eterogeneità e l’indipendenza delle singole proposte, emblematico per il contesto italiano è il sorgere a Milano del Realismo esistenziale, movimento artistico affermatosi tra la seconda metà degli anni Cinquanta e l’inizio del decennio successivo, molto più vasto dei soli nomi a cui la critica abitualmente lo restringe[7]. Inquadrabile nella più ampia cornice della Nuova Figurazione postbellica, il Realismo esistenziale è un modo di interpretare il mondo a cui gli artisti si accostano con diversi gradi di (tras)figurazione, mossi da un comune modo di sentire e percepire l’esistenza, tra sofferenza e solitudine. È il modo di Vespignani, Ferroni, Guerreschi, Romagnoni ma anche, in senso più ampio, di Francis Bacon e di Alberto Giacometti, indiscussi protagonisti di una stagione internazionale dell’arte che alla pungente ironia della Pop Art contrappongono la drammatica consapevolezza della condizione umana.
Al pari di molti suoi colleghi anche la peculiare figurazione di Ivo Scaringi, enigmatica ed aspra, nasce da una riflessione sulle vicende del mondo contemporaneo. L’alienazione dell’uomo è restituita in una selva di icone, simboli ed emblemi che cessano di essere unicamente riferiti al soggettivismo dell’artista per illustrare in senso generale la condizione disumanizzata dell’esistenza. Gli interessano i braccianti, i derelitti, gli emigranti, simboli di dolore, stanchezza fisica e arretratezza teorica, ma riscattati da un senso di dignità umana. È una pittura d’emergenza, una pittura d’allarme. Un figurativismo di stratta osservanza che in Italia annovera, in tempi coincidenti, artisti di primo piano, a Milano e a Roma, da Renato Guttuso ad Ennio Calabria. Scaringi fa propria la cultura moderna dominandola dall’interno, nella misura di una vera esigenza di espressione poetica. Inserendosi prontamente nella scia degli innovatori, avverte i limiti culturali della tradizione figurativa pugliese che reinterpreta in chiave espressionista. Egli crede fermamente che il discorso figurativo debba essere riflessione dell’uomo sull’uomo. I primi e migliori interpreti della sua maniera sono i colleghi pittori: Luigi Guerricchio dichiara di aver voluto fare lui stesso alcuni dei suoi dipinti “per quel razionale segno sanguigno che sempre attraversa, spietato, i colori più dolci”; Salvatore Salvemini, invece, lo loda per i suoi “orizzonti umani ed etici profondamente sentiti”[8].    
Con loro nel 1963 allestisce una mostra di incisioni alla Scaletta di Matera e l’anno dopo tutti e tre insieme, con il fratello Franco e altri cinque pittori pugliesi (Enrico Landi, Ugo Martiradonna, Antonio Nuovo, Francesco Prelorenzo, Michele Vallarelli), danno origine a “Nuova Puglia”, gruppo di ricerca sorto con l’intento svecchiare la pittura pugliese, fino a quel momento consolidatasi in immagini oleografiche e stereotipate. Precipuo obiettivo del gruppo era il “recupero espressivo della nuova realtà meridionale”. Espressione ossimorica che unisce il rinvenimento di una precisa tradizione locale all’esigenza del racconto della nuova realtà meridionale. Emblematica appare l’opera Natura morta del 1966, esposta in quello stesso anno alla Biennale Nazionale d’Arte Contemporanea di Bari, ultimissima propaggine del Maggio, e nel 1968, sempre a Bari, alla mostra Puglia ’70. Nella composizione il genere della natura morta si trasfigura in una ricerca pittorica scomposta, condotta per frammenti su campiture cromatiche piatte, riflesso di una condotta espressiva che tiene conto di quanto altrove si va sperimentando, ma anche di una vecchia meridionalità che si va frantumando sotto i colpi dell’industrializzazione incipiente.
I pochi anni di attività del gruppo sono anni di grandi cambiamenti, gli anni della contestazione studentesca, delle prime esplorazioni spaziali, della comparsa e della consacrazione della Pop Art alla Biennale di Venezia. Scaringi avverte le mutazioni sociali, economiche ed estetiche in atto maturando un nuovo stile, imbastito da tonalità metalliche, memori dello sviluppo industriale italiano, mentre i frammenti, simili ad ingranaggi dell’esistenza, chiavi di lettura della vita collettiva, divengono assoluti protagonisti. Valva sonora, Grembo tecnologico, Referto, Ricomposizione, Inventario sono opere popolate da ritagli, forme radiografiche e sagome, che a non troppo velati riferimenti pop (prossimi più ai modi di Renato Mambor che a quelli degli americani) uniscono specifiche riflessioni sulle più recenti tendenze costruttive e programmate. Realizzate tra il 1970 e il 1975, queste opere tracciano visivamente l’ineluttabile forza alienante delle nuove forme tecnologiche, alludendo ai profondi cambiamenti che in quel momento vive la realtà pugliese, che a Taranto, in anni coincidenti assiste alla nascita e al primo sviluppo dello Stabilimento Italsider, il maggior complesso industriale per la lavorazione dell'acciaio in Europa.
Nel passaggio agli anni Settanta l’esperienza di Nuova Puglia si è esaurita e sulle sue ceneri, nel 1971, è sorto un nuovo collettivo, “Immaginazione e Realtà”, reso noto in regione da una mostra di grande impegno allestita alla Pinacoteca Provinciale di Bari, diretta all’epoca dalla lungimirante Pina Belli D’Elia. Cambiano gli aderenti (al posto di Nuovo, Prelorenzo e Vallarelli, figurano Addamiano, Grillo, Morelli e poco più tardi il giovane Dellerba) ma i propositi di rinnovamento permangono, incentrati su comuni ambiti d’indagine: il rapporto dell’individuo con i miti della civiltà tecnologica e i diffusi problemi di libertà e giustizia nel mondo contemporaneo.
Gli anni Ottanta segnano una nuova svolta. Scaringi non ha mai abbandonato la figurazione, ma le ricerche di matrice programmatica rischiano di farlo allontanare dall’uomo, obiettivo e fulcro di tutta la sua ricerca. Per questo torna ad una figurazione più sensibile in termini di rappresentazione grafica e resa chiaroscurale, trovando in pochi elementi, l’osso di seppia, il bucranio, il nodo, i residui significanti di un’esistenza dolorosa, di un diffuso e sottaciuto malessere. Per meglio comprendere il passaggio compiuto nel decennio appare utile il confronto tra Oggetti nello spazio della fine degli anni Settanta e Sequenza di oggetti del 1988. In entrambe le composizioni cinque oggetti si ergono su sfondi neutri. Asse di simmetria è un osso di seppia, ma nella prima, a destra e sinistra, si collocano due coppie di oggetti, uno naturale l’altro meccanico, nella seconda gli oggetti naturali sono affiancati a panni annodati, questi ultimi un topos iconografico e concettuale della produzione matura dell’artista. Ma è la rappresentazione a segnare lo scarto più evidente. Mentre la prima, fredda e analitica, appare indagare gli oggetti con attitudine scientifica, segnando in maniera netta i piani di luce ed ombra, la seconda appare più emotiva e partecipata, con trapassi chiaroscurali morbidi e sfumati.   
Rispondendo positivamente ad una generale temperie di riscoperta dei temi e dei mezzi pittorici tradizionali, il pittore negli anni Ottanta recupera la figura, ritrovandola però non solo nella vita quotidiana, ma nell’arte. Riprende atmosfere liberty (Ritratto di Anna, 1984), reinterpreta De Nittis (Ritratto di Madame Lèontine, 1985) e Géricault, la cui Zattera della Medusa, contestualmente riformulata in area apulo-lucana da Luigi Guerricchio, Beppe Labianca e Leo Morelli, continua ad essere emblema della deriva della società contemporanea, ma soprattutto riscopre il romanico, lo stile che autenticamente connota la terra pugliese e che a Trani ha uno dei suoi templi più belli e celebrati. Nascono le sue Visite in cui prosegue l’estetica del frammento che ora, abbandonate le sagome del decennio precedente, assume una forte plasticità, esaltata da una predominante tonalità verde (derivata dalla precedente serie Vegetazione) e da improvvisi bagliori che illuminano pesanti oscurità, facendo emergere animali stilofori e decorazioni scultoree, testimonianze di un mondo arcaico, oscuro, privo persino di una precisa collocazione cronologica, indefinito incipit di una stratificazione memoriale che giunge all’età contemporanea. Pietre, volti, mani, sono i lacerti superstiti di un percorso a ritroso che giunge a scandagliare l’esistenza umana attraverso ciò che ha saputo produrre. Composizioni raffinate, in cui vi è un senso di sospensione e di fluttuazione di immagini, cesellate da un tratto pittorico delicato ma incisivo, talvolta filamentoso, altre dilatato in campiture più vaste. Rispondendo alla oramai consueta estetica del frammento, Scaringi persegue anche nella sua produzione ultima l’intento antropologico, sempre condotto mediante una dolorosa gestazione estetica. Oggetti, elementi paesaggistici e volti diventano altro dalla loro sollecitante immagine iniziale, poiché portano il peso di un’alienazione non riscattata, di un’inquietudine che permea l’esistenza senza possibilità di remissione, tra memoria e truce consapevolezza. È questa la rappresentazione estrema di un artista che non ha mai dimenticato l'uomo, che come pochi ha saputo interpretarne visivamente le inquietudini, contribuendo a costruirne la memoria e a tracciarne la storia.




[1] Ibidem.
[2] Alla stessa temperie culturale fanno riferimento anche le considerazioni critiche di Etienne Salaberry (Heleta, 1903 – Bayonne, 1981), che del nostro paese ha detto “L’Italie c’est le classicisme et le romanticisme”.
[3] P. Marino, Francesco Spizzico, Agenzia d'arte moderna, Bari 1983, 
[4] D. Di Palo (a cura di), Ivo Scaringi, Mario Adda Editore, Bari 1999, 
[5] Idem
[6] Idem,
[7] Il primo a parlare di Realismo esistenziale è stato Marco Valsecchi nel 1956. Gli artisti raggruppati in quel vasto movimento artistico non si costituirono mai in un gruppo organizzato, ma rimasero uniti da un senso di appartenenza ad una corrente artistica e di pensiero resa visibile da alcune esposizioni collettive. Col tempo la critica ha ritenuto di dover circoscrivere ai soli Ceretti, Guerreschi, Bepi Romagnoni, Vaglieri Banchieri, Ferroni e Bodini, ossia quelli che più degli altri tengono fede ai principi estetici e sociali, collocando il Realismo esistenziale fra il 1954, anno del diploma accademico di Guerreschi, e il 1964, anno della prematura morte di Romagnoni in un incidente occorso durante una sessione di pesca subacquea al largo della Sardegna. Per approfondimenti AA.VV., Realismo esistenziale 1954 - 1964, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, 2005.
[8] Considerazioni riportate sul catalogo della mostra allestita alla Galleria “Il Cavalletto” di Molfetta, nel 1964, riprese in D. Di Palo (a cura di), Ivo Scaringi, cit.,




Ivo Scaringi

UN TESTAMENTO UMANO E ARTISTICO IVO SCARINGI
 Nicola Scaringi
 Una mente, una mano, una tela. Una tela che non era il luogo dove esercitare le sue pur comprovate doti tecniche. Una tela che era piuttosto il luogo dove rappresentare le sue tensioni interiori, dove portare alla luce le problematiche sociali degli anni sessanta e settanta, un luogo dove denunciare, ad esempio, la condizione lavorativa delle donne nei campi, chine a raccogliere le olive cadute a terra, sottopagate, per dodici ore al giorno. La tela era il posto dove far rivivere il dramma del pesce spada appena pescato nell'atto dello smembramento per mano di alcuni pescatori. Una vita che se ne va, quella del pesce spada, per la sopravvivenza di altre vite, quelle dei pescatori e delle loro famiglie. La tela era il luogo dove si affollano i pensieri dell'artista nel momento in cui, in estate, si sofferma a guardare la luna piena, così luminosa, che spunta tra i rami degli alberi, inquietanti nella loro penombra. Sono passati vent'anni dalla sua ultima pennellata. L'ultima tela è rimasta sul cavalletto, incompiuta. Era una autoritratto. Non è uno dei soliti autoritratti che siamo abituati a vedere. No. È l'autoritratto di una persona che sta morendo. Lì c'è la disperazione mista a rassegnazione, lì c'è tutta la complessa psicologia di chi sa di essere di fronte all'epilogo della propria vita. Lì c'è un testamento umano e artistico. Sta a noi saperlo cogliere. Ivo Scaringi era una persona mite, ma aveva una mente capace di porsi grandi interrogativi esistenziali. A qualcuno di questi riusciva a darsi una risposta e ce l'ha indicata: i luoghi dell'arte. Le chiese romaniche, gotiche, rinascimentali, le pinacoteche così intrise di storia e di vicende umane e artistiche, le gallerie dove sperimentare le nuove tendenze del mondo dell'arte sono luoghi dove rifugiarsi per scappare dalla crisi della società moderna, dal suo mondo effimero, dal suo abbrutimento, dal caos della vita di ogni giorno. La via d'uscita è nella riscoperta delle nostre radici storiche, gli scalpellini, i muratori, le maestranze che con il loro lavoro hanno lasciato a noi patrimoni di inestimabile valore, come la Cattedrale di Trani, come il colonnato di Gianluigi Bernini a Roma, come la cupola di Filippo Brunelleschi a Firenze. É lì, nell'umiltà di chi ha lavorato duramente, giorno dopo giorno, a mani nude, per pochi soldi, che si nasconde la bellezza del modo che ci circonda. A noi sta il compito non di passarvi d'avanti noncuranti, ma di soffermarci ad ammirarla ed apprezzarla, così come oggi dobbiamo fare di fronte ai quadri di Ivo Scaringi e dei suoi amici Magdalena Asteri, Luigi Basile, Mario Colonna, Antonio Laurelli, Nicola Lisanti, Benito Gallo Maresca e Massimo Nardi. Grazie a loro, grazie alla loro sensibilità umana e artistica, oggi Ivo Scaringi rivive al nostro fianco e celebra insieme a tutti noi questa mostra che è una festa dell'amicizia, quella disinteressata, quella che farebbe scalare una montagna, quella di chi si ricorda di chi è stato meno fortunato degli altri ed oggi non è più con loro, ma per fortuna ci sono gli amici a ricordarlo.


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