
La scomparsa a 99 anni di Arnaldo Pomodoro, ultimo scultore vivente italiano più famoso nel mondo (Morciano di Romagna 1926 - Milano 2025) segna la conclusione di un ciclo esemplare di concezione rinascimentale dell’arte, calata dentro le grandi crisi del Novecento. Dagli anni ’50 infatti l’artista (nato in Montefeltro da famiglia di origini molfettesi), salito a Milano da Pescara col fratello Giò (scomparso prematuramente nel 2002) ha accolto nell’assolutezza della Grande Forma italiana, dentro la perfezione astratta dei volumi e nella materia privilegiata del bronzo dorato, le tensioni di disfacimento della materia, le corrosioni di dubbio esistenziale che segnarono quella stagione internazionale dell’arte. Come dire, da Piero della Francesca a Klee e Brancusi, sino a Fontana e David Smith. Nacquero così le Sfere e i Dischi, gli Obelischi e le Piramidi, le Colonne tarlate nella loro lucente definizione, le Tavole solcate da frementi scritture. Un repertorio capace di conferire eloquenza istituzionale all’arte per spazi pubblici, in tutto il mondo. Dalla Sfera che sta davanti al Palazzo dell’Onu a New York, a quella davanti alla Farnesina, sede del nostro Ministero degli Esteri, alla Croce pensile nel tempio di San Pio ideato da Renzo Piano a San Giovanni Rotondo. Una mappa nel sito della Fondazione da lui istituita a Milano (con relativo Museo personale) dimostra la diffusione dei suoi monumentali segni iconici. Una creatività rinascimentale, anche nello svolgimento di tutte le forme della plastica e della grafica, e dalle scenografie teatrali al design da oreficeria. Senza dire di grandi operazioni di architettura ambientale, come il Cimitero di Urbino (1973).
Anche la Regione Puglia ha voluto collocare un suo grande Disco dinnanzi al nuovo Palazzo su via Gentile. Ultimo frutto di una presenza significativa di Pomodoro nelle vicende dell’arte contemporanea nel territorio: dalla Colonna eretta nella Pinacoteca provinciale di Bari nel 1966 per la seconda edizione della Biennale che concluse il ciclo delle mostre del Maggio di Bari (1951-1966), alla mostra internazionale “Aspetti dell’Informale” nella stessa Pinacoteca (1971). Sino alla grande personale en plein air allestita nell’agosto 2007 nella masseria il Melograno di Monopoli per iniziava di Camillo Guerra e alla triplice mostra ministeriale nei castelli di Bari, Casteldelmonte e Trani nel luglio 2014.
Non c’è spazio qui per ripercorrere i premi internazionali che dalla Biennale di Venezia del 1963 e di Sao Paulo in Brasile (1964) hanno segnato la sua carriera. È più necessario riprendere il discorso sulle sue sculture. Nei ’60-70 i “tarli” che corrodevano la politezza della materia erano leggibili come citazione fantastica di viscere di strumenti meccanici, o di centraline affollate di congegni. Nel contempo sollecitavano tracce di ideogrammi e scritture di civiltà perdute, o cifrari segreti. Segnali dei drammi e strappi che hanno devastato il XX secolo, minando lo slancio progressista delle avanguardie moderniste.
Dagli ’80, segnati dalla rivincita dell’iconismo postmoderno e dalla selva della comunicazione telematica, Arnaldo Pomodoro compì un meno noto ma importante percorso di smagrimento. Soprattutto con le Aste cielari, colonnine scandite dall’alternanza di gusci cilindrici, tronchetti scorticati come carne al vivo: “antenne del futuro – disse lui stesso - e allo stesso tempo maschere tribali”. E poi coni rovesciati e macchine spiraliche in cui interveniva, con l’avanzare dell’età, una sorta di disincanto, persino una sottile ironia. Una nuova dimensione del viaggio, metafora sempre cara all’artista che inventò nei ‘60 le “colonne del viaggiatore”, come omaggio alla “colonna senza fine” di Brancusi. Un viaggio lungo e complesso, con sguardo ultimo rivolto al cielo. Smaltite le celebrazioni, andrà ripercorso (magari con quello di Giò, del quale restano tracce notevoli a Bari grazie al rettore dell’Università Ernesto Quagliariello) con nuova attenzione e con rinnovato rispetto.
PIETRO MARINO
(La Gazzetta del Mezzogiorno 24 giugno 2025)