A debita distanza | di Angela Madesani
debita distanza è il titolo della mostra di Alessandra Baldoni. Il riferimento è in primis a un modo di porsi dell’artista e quindi di chi guarda, è una sorta di auspicio. Sono lavori, realizzati nell’ultimo anno, dedicati alla prosa di Franz Kafka, ad alcuni racconti, lunghi, brevi e a un romanzo. La prima facile, quanto errata lettura, potrebbe essere quella di trovare nelle immagini un’illustrazione dei testi dello scrittore praghese: Un digiunatore, La metamorfosi, La tana, Alberi, Davanti alla Legge, Il cavaliere del secchio, Il messaggio dell’imperatore, Nella colonia penale, Il processo.
L’immagine, invece, nasce per un bisogno intimo, prepotente dell’artista di riuscire a rendere quanto ha metabolizzato, ha fatto proprio di una serie di scritti di uno dei più complessi scrittori del XX secolo. Baldoni non segue pedissequamente una traccia scritta. Non le interessa. «Cerco sempre di appendermi alle parole come un’acrobata e portarmi via delle visioni, dei sentimenti. Chiuso, infetto, solitudine, abbandono, musica, tempo fermo, tempo rotto, mela, rovina. Queste sono alcune delle parole sopra a cui ho poggiato le immagini». Attraverso il racconto, Kafka riesce a darci degli spaccati esistenziali, impensabili da restituire semplicemente con delle immagini. Bisogna tenersi, appunto, a debita distanza, farli propri e quindi sviluppare, come ha fatto Baldoni, delle immagini che evochino, che diano vita ad atmosfere, a spaccati. Il racconto dal quale è partita è Un digiunatore[1]. Un uomo digiuna per mestiere, per emozionare un pubblico, alla ricerca di sensazioni forti. È un circense, un cosiddetto fenomeno da baraccone, vive in una gabbia. Un impresario si arricchisce alle sue spalle.
Ma la gente, si sa, si stanca presto e piano piano il pubblico passa davanti al suo abitacolo senza accorgersi di lui. La reazione dell’uomo è quella di spegnersi giorno dopo giorno, come una candela per poi scomparire. Ci si chiede: cosa lo ha spinto a diventare un digiunatore? Il fatto che nessun cibo gli piacesse. La risposta è surreale, incredibile. Vi è un’ironia di fondo che troviamo in molti frangenti kafkiani. Quando il digiunatore muore, la gabbia resta vuota e al suo posto arriva una pantera, che, invece, mangia di grande appetito. In più di un punto dello scritto torna la parola malinconia. È la malinconia del quotidiano, dell’inesorabile ossessione dell’esistenza che segna la vita di alcuni di noi. Il racconto è particolarmente attuale, in fondo parla di audience, di successo e di abbandono. Mi torna in mente un personaggio tragico di Charlie Chaplin, il clown Calvero di Luci della ribalta, prima acclamato e poi dimenticato dal pubblico capriccioso.
L’impresario è presente solo nelle prime due foto. Nell’ultima rimangono dei residui di porte, finestre e un orologio. Sono messinscena garbate, pochi gli elementi, ma essenziali, immediatamente riconoscibili.
Quando viene pubblicato La metamorfosi, il suo racconto più noto, nel 1915, dall’editore Kurt Wolff a Leipzig, lo scrittore preferisce che non venga illustrato in copertina il grande insetto come del resto all’interno del volume. Nelle foto di Baldoni tutto è coperto con del cellophane, è una sorta di presa di distanza dalle cose. Un personaggio vestito con un abito da sera nero popola le scene. Non sempre si riesce a dare una spiegazione delle cose. Il vero protagonista è il tempo, quello inesorabile dell’esistenza. Una sveglia scandisce i nostri attimi. In fondo il nostro non è che un cammino verso la morte: ed è subito sera. Così Salvatore Quasimodo.
Nei suoi set i racconti sono messi in scena in una chiave del tutto personale, simbolica.
«Sono solita dire che scrivo piccole sceneggiature per uno scatto, la scrittura è il diario di
carta da cui si animano le visioni. Sono sostanzialmente una narratrice, amo le storie, le cerco, le rubo, le mescolo le scompongo. La scrittura è l’ossatura che sostiene le immagini»[2].
carta da cui si animano le visioni. Sono sostanzialmente una narratrice, amo le storie, le cerco, le rubo, le mescolo le scompongo. La scrittura è l’ossatura che sostiene le immagini»[2].
I personaggi sono vestiti in maniera particolare con abiti d’epoca, ma la sua non è una ricostruzione filologica. Qualcosa deve essere lasciato all’immaginazione di chi guarda, non tutto va svelato. Lo spettatore ha un ruolo attivo.
Alcuni lavori sono costituiti da una serie di immagini, altri da una sola. Così per il racconto lungo La tana. Un animale, un uomo, non è dato saperlo, vive in una tana che si è costruito. Ma percepisce rumori molesti, che non riesce a distinguere. Si avverte la presenza di una bestia, che scappa. È una metafora anche qui dell’umana condizione, di certi esseri che vivono lontani, protetti dal mondo all’interno della loro tana, timorosi di avvertire altre presenze. Un braccio fuoriesce da una sorta di costruzione bianca. È un lavoro che presenta pochi trucchi. È tutto molto semplice, senza esasperazioni di sorta.
Tra i lavori più intensi, quello dedicato al brevissimo racconto Alberi del 1903-1904, quasi in forma di poesia, che accenna all’apparenza, come i tronchi nella neve stanno gli esseri umani. Parrebbe che un solo alito di vento possa spazzarli via. Invece non è possibile, perché essi sono saldamente attaccati al terreno. Ma è certo? Perché anche questa è, forse, soltanto apparenza. Un giovane è all’angolo di una stanza segnata dal corso del tempo. Non alza gli occhi allo spettatore, ai suoi piedi sono due fustelli di legna, leggeri e facilmente rimovibili.
Davanti alla legge del 1914, è un racconto parabola, che verrà poi inserito ne Il processo,
qualche anno più tardi. È il tentativo da parte di un uomo di campagna di arrivare alla legge. Per farlo deve varcare un portone, davanti al quale è un guardiano che lo spaventa spiegandogli che, varcata la soglia, è ancora più difficile arrivarvi. L’uomo decide di attendere, ma il tempo passa. Un attimo prima di morire il guardiano gli rivela che: «Qui non poteva entrare nessun altro, poiché questa porta era destinata a te, e a te soltanto. E adesso me ne vado e la chiudo». È la storia di ciascuno di noi. Non siamo che dei “soli”, parafrasando il titolo di una bella canzone di Giorgio Gaber.
Il cavaliere del secchio � costituito da una serie di quattro fotografie. La prima e l’ultima sono dei paesaggi desolati, malinconici. Un uomo povero chiede un secchio di carbone al carbonaio per riscaldarsi. Quando la moglie del commerciante si accorge che l’uomo non ha soldi per pagare, gli nega il carbone. L’uomo se ne va a cavallo del suo secchio vuoto, probabilmente verso la morte. Sono immagini malinconiche sui toni freddi del grigio, del blu, del celeste. Anche qui il protagonista è l’uomo nella sua condizione di animale solo.
Per certi versi vicino a quest’ultimo è la serie di immagini su Il messaggio dell’imperatore, un racconto del 1917. L’imperatore sta morendo, una folla assiste alla sua morte, ma ugualmente affida a un messaggero un messaggio da consegnare a un “miserabile suddito”. Messaggio che non arriverà mai a destinazione, perché il messaggero si perde nei meandri del maestoso palazzo imperiale. Mi pare di potere riscontrare dei riferimenti con il tramonto dell’impero asburgico. Francesco Giuseppe è morto nel 1916, confinato nel semplice letto di ferro della sua stanza del palazzo in stile pompier, costruito per celebrare un fasto ormai agli sgoccioli. Nelle immagini di Baldoni è come un blow up, un avvicinamento al dettaglio: un paesaggio con un albero e una figura lontana, quindi il volto dell’imperatore, un giovane, per poi focalizzarsi su un guanto di ferro, circondato da fiori e da un rotolo di carta, che presumibilmente contiene un messaggio.
Baldoni va oltre l’apparenza della scrittura, cerca di cogliere i significati reconditi. Se la macchina per la tortura potrebbe apparire il fulcro di Nella colonia penale. Così non è per lei, che legge tutto questo come un espediente spettacolare che sceglie di non rappresentare. Il soggetto del racconto è, piuttosto, la colpa, la condanna senza appello in un iniquo quanto soggettivo sistema giudiziario, in cui a dominare è la frustrazione dell’uomo. Nelle foto sono persone, paesaggi. «Ho sovrapposto la figura del soldato condannato e dell'ufficiale. Nel racconto ad un certo punto i ruoli si invertono, l'ufficiale (che per due volte si lava le mani) libera il soldato condannato e si mette al suo posto.
Il soldato partecipa nel far funzionare la macchina, non scappa, scampata la morte. Resta lì, dentro lo show incomprensibile della morte. In fondo sono entrambi condannati da una colpa senza nome, come tutti noi, ciò che conta è solo che carne e sangue siano il pegno da pagare ad un verdetto superiore».
Il soldato partecipa nel far funzionare la macchina, non scappa, scampata la morte. Resta lì, dentro lo show incomprensibile della morte. In fondo sono entrambi condannati da una colpa senza nome, come tutti noi, ciò che conta è solo che carne e sangue siano il pegno da pagare ad un verdetto superiore».
Una serie di immagini sono dedicate anche al romanzo Il Processo, uscito incompiuto nel 1925, dopo la morte dello scrittore, che desiderava venisse bruciato. Vi sono qui due atteggiamenti, uno di passiva accettazione del non funzionamento, privo di qualsiasi logica, l’altro di razionalità e lucidità da parte di Josef K., accusato, arrestato e processato per motivi misteriosi. Immagini straordinarie di quest’opera sono quelle realizzate da Orson Welles[3] nel suo film dedicato all’opera di Kafka. Sono immagini di angoscia, di chiusura, proprio come quelle di Baldoni.
Baldoni riesce a sottolineare la surrealtà, l’assurdità della situazione. Il protagonista delle immagini è coperto da una maschera di carta, che gli impedisce di guardarsi attorno per essere finalmente collocato in una grande stanza con le mani e i piedi legati, sempre privo di uno sguardo. È impossibile fare chiarezza, riuscire a districarsi. Tutto è troppo volutamente complesso. Dare un senso alla nostra esistenza è spesso fallimentare, ingoiati quotidianamente in un meccanismo dal quale è difficile, forse, impossibile uscire.
[1] Uno dei pochissimi che Kafka non chiede di distruggere dopo la sua morte all’amico Max Brod.
[2] A.Baldoni in M.Cresci, Mitdenken Un pensiero per Alessandra Baldoni, 2009 Bergamo.
[3] Il processo, 1962, regia di Orson Welles.